[la foto è di Tirza van Dijk via Unsplash]
Gli argomenti che suscitano la reazione più veemente degli studenti a scuola sono i divieti sui vestiti e i telefonini. Non è un caso. Gli uni e gli altri sono espressione della tecnologia così come la intende McLuhan, ossia una estensione della corporeità.
Lo sono evidentemente i telefonini, che sono un concentrato di conoscenze tecniche e scientifiche di ultima generazione, ma lo sono anche i vestiti, che sono pur sempre prodotti artificiali che vengono realizzati utilizzando macchine talmente poco sofisticare rispetto ai prodigi dei chip integrati che non ci fanno più l’effetto di macchine.
In ogni caso, ciò che accomuna queste due categorie di oggetti è il fatto di essere una superfetazione, ossia una espansione artificiale, del corpo: i vestiti sono, dal punto di vista strettamente funzionale, una “pelle artificiale” che i Sapiens Sapiens possono mettere e togliere a seconda delle necessità e del piacere. Le scarpe per esempio (perfino nelle loro forme più semplici, anche come semplici sandali rudimentali, perfino quelli ricavati dai pneumatici) sono una espansione della pianta dei piedi che moltiplica la possibilità di camminare su terreni difficili senza farci male, ossia letteralmente sono una “pianta del piede” artificiale che ci permette di fare cose che altrimenti non potremmo fare o che potremmo fare con difficoltà o sofferenza.
Ma accanto a questa funzione pratica si è subito sviluppata una funzione estetica, con la quale si è cercato di esprimere il proprio senso del bello o almeno del piacevole, con gli infiniti e ramificati sviluppi fino a oggi che tutti ben conosciamo attraverso la frequentazione dei negozi e della pubblicità.
I telefonini, all’altra estremità della complessità tecnologica, sono una estensione massima del sistema nervoso centrale che consente di espandere prima di tutto la capacità di comunicare a distanza (sì, i cellulari sono nati per telefonare in qualsiasi momento e da quasi qualsiasi posto) ma poi anche di accrescere altre facoltà umane, tra cui spicca la memoria. Questa, soprattutto, è cresciuta rapidamente di importanza, in un procedere che merita attenzione.
Alla primitiva e quasi rudimentale funzione della rubrica telefonica, che permetteva sin dai primi modelli di delegarela routine dei processi di memorizzazione dei numeri telefonici alla “estensione del corpo” rappresentata dal cellulare stesso, si sono rapidamente aggiunte altre forme di memoria, prima di tutto quella visiva (foto e video) e poi quella uditiva (canzoni e registrazioni). Man mano che cresceva la potenza e la qualità della connessione l’espansione del sistema nervoso del singolo cresceva innervandosi con la memoria della rete. Non c’è da stupirsi che la perdita del cellulare venga vissuta come un vero e proprio trauma, in apparenza esagerato rispetto al valore strettamente economico del telefonino: in realtà quello che viene perso è letteralmente una parte di noi, e proprio una delle parti cui teniamo di più, ossia la memoria (o almeno la testimonianza) dei momenti migliori della nostra vita.
Tutto questo per dire che vestiti e cellulari quindi non sono semplici “oggetti esterni” ma in quanto espansioni della corporeità partecipano in modo decisivo alla costruzione dell’identità personale (condividendo questo ruolo, è ovvio, con una infinità di altri oggetti). Ma vestiti e cellulari, essendo tra le non moltissime cose che i ragazzi adolescenti possono gestire in proprio, partecipano in modo essenziale al processo di identificazione del sè. Per questo le reazioni dei ragazzi sono così scomposte quando, per una qualunque ragione, hanno la percezione che gli adulti vogliano intervenire in questo campo, come si è visto nelle polemiche al liceo Newton di Roma nel maggio 2022, o al liceo Malpighi di Bologna nel settembre 22. E’ facile prevedere che all’inizio del prossimo anno scolastico (per i telefonini) e alla fine (quando la temperatura nelle aule si alza e le ragazze accorciano le gonne) queste polemiche impesteranno ancora una volta il dibattito sulla scuola
Insopportabile la retorica del preside Marco Ferrari del Malpighi (Bologna): “I richiami non bastano, questo è un tentativo coraggioso per permettere agli alunni di staccarsi da uno strumento pervasivo e recuperare il calore dello sguardo, dell’abbraccio”. Un progetto didattico, dice il dirigente, “che non calpesta la libertà di nessuno, ma permette ai ragazzi di sperimentare una scuola nuova, quella che tutti noi abbiamo vissuto, senza smartphone”
“I richiami sono inutili, è difficile, se non quasi impossibile, chiedere loro il distacco dall’uso pervasivo e distrattivo dello smartphone. Li vedo durante l’intervallo, nemmeno parlano più tra loro e in classe sono continuamente distratti dal telefonino – continua Ferrari, che è anche docente di Filosofia -. Allora abbiamo deciso che occorreva un intervento educativo forte, mi rendo conto che lo è e che ci esponiamo anche alle critiche. Quella dal cellulare è una dipendenza che si vince con la buona volontà. Verificheremo come è andata a fine anno, ma penso che sia un tentativo che dovrebbero provare tutte le scuole. Crediamo che così i ragazzi possano dedicare tutte le loro energie al lavoro che si fa in classe e sperimentare la sfida dell’altro e dell’essere comunità durante l’intervallo”. (https://www.rainews.it/articoli/2022/09/lesperimento-del-liceo-bolognese-cellulari-vietati-in-classe-durante-le-lezioni-anche-ai-prof-c66ec853-3435-4ce9-8480-8c79d5094ac0.html)
il 15 febbraio 22 appariva sulla stampa la vicenda della professoressa del liceo RIghi di Roma che aveva apostrofato una ragazzina dicendole “stai sulla Salaria?” perché a quanto pare si stava filmando per un video di TikTok sollevando la maglietta e lasciando scoperta la pancia in una posa giudicata “sexy” dalla collega. Ne è seguita la reazione di tutti gli studenti che nei giorni successivi hanno volutamente infranto il “dress code” della scuola per manifestare la loro solidarietà con la compagna.
Sarebbe facile, spulciando la cronaca dei giornali, trovare episodi simili, che la stampa ha facile gioco a usare come “descrittori” della scuola italiana (la cui realtà è invece ben diversa).
Il fatto che queste polemiche si riattivino ciclicamente a ogni inizio d’anno scolastico dovrebbe comunque farci capire che siamo di fronte a tensioni strutturali, in cui si intrecciano questioni di identità personale e di relazioni con gli altri, e quindi entra in gioco il tema della libertà.
In un caso come nell’altro la reazione della istituzione rimane sempre repressiva, o viene percepita come tale anche se chi detiene l’autorità dichiara esplicitamente di non voler essere repressivo.
In un caso come nell’altro si perde così l’occasione di un percorso educativo nel senso migliore, che dovrebbe partire (o almeno comprendere) una riflessione “filosofica” in senso ampio sul significato reale di questi aspetti della nostra esperienza.
nel caso specifico dei cellulari è una tempesta in un bicchier d’acqua dato che secondo una ricerca di studenti.it il cellulare viene già ritirato nel 26% delle scuole (https://www.rainews.it/articoli/2022/09/scuola-il-36-degli-studenti-ammette-di-essere-distratto-dal-cellulare-in-classe-4c534f94-4262-4152-b13b-db20db5e947a.html)